Da Ignazio Badalì ricevo e
pubblico
Starsene in silenzio è stata quasi
una necessità. Può essere che impegni di varia natura ne abbiano favorito
l’effettiva pratica, ma le motivazioni essenziali hanno ben altra caratura. Di
tanto in tanto, stimolato da letture o da approdi (anche casuali) seguendo rotte
internet (talune piuttosto azzardate), ho ceduto alla tentazione di gettare su
un foglio qualche riflessione. Queste note sparse, colme di cancellature, hanno
occupato per un po’ parte del piano della mia scrivania. Rileggendole, anche a
distanza di tempo, non ho visto dissolversi, ahimè, quel senso di vacuità già
provato al momento della loro compilazione. Ho pensato quindi che certi
accadimenti potevano aver segnato il “de profundis” per questa comunità.
Pertanto non c’era più nulla da fare; anche se alcuni facevano finta di non
averlo compreso e tanti altri non lo avevano capito davvero. A differenza di
qualche osservatore, decisamente più ottimista, mi ero convinto che non eravamo
più sul ciglio del precipizio ma ne eravamo oramai rovinosamente inghiottiti. In
quei frangenti non ho per nulla cullato l’ipotesi che da qualche parte potesse
giungere quello che, con un’espressione in voga, viene definito: “un segnale di
discontinuità”. Il motivo era semplice: dominando la rassegnazione in ogni
ambito, chi avrebbe potuto curarne il lancio? Avevo ragione! Difatti non è
successo nulla.
Oggi sono in tanti a dirmi che la
nostra cittadina langue. Tanti a lamentarsi della futilità o della pochezza dei
motivi oggetto delle sporadiche dispute. L’impressione è che pur essendoci
ancora qualcuno che si ostina a dire qualcosa, nessuno ha qualcosa da dire,
nella sostanza. Tutto sembra avviluppato da inesorabile decadimento. Anche il
confronto politico che in passato ha conosciuto ben altri interventi, dietro il
mancato clamore nasconde il più grande vuoto di idee, di proposte e di contenuti
che si ricordi. Può accadere pertanto che il confronto per occupare la poltrona
più prestigiosa di Palazzo S. Nicola, pur connotandosi come una specie di derby,
non riesca a trasmettere alcuna tensione emotiva, tanto meno crea aspettative:
appare simile ad una noiosa polemica per la nomina di un amministratore di
condominio. La contesa non vede più gli schieramenti disposti a difesa della
città, ma fazioni che si affrontano per ghermire la città. La città intesa
quindi come bottino da assicurare alla propria parte. Empio campo di battaglia
che consegnerà ai nostri giovani un disperato campo di rovine.
Di ciò non mi sento di incolpare
nessuno in modo particolare. L’azione demolitrice non può essere e non è opera
di un singolo, né di una ristretta cerchia di reprobi. E’ il prodotto invece del
disimpegno delle èlite che avrebbero dovuto avvertire il dovere di svolgere
quelle funzioni che sono proprie di una classe dirigente e che hanno
sdegnosamente ricusato tale ruolo. A tal proposito, mi chiedo che fine abbiano
fatto quelle frange oltremodo faziose, conosciute in gioventù e di cui abbiamo
dovuto sopportare per anni l’ostentazione di una supposta superiorità culturale;
composte in buona parte da giovanotti di sinistra con tanto di puzza sotto il
naso. Saranno ancora impegnati nella ricerca spasmodica di quel mitico “NUOVO”
col quale si sono ossessionati per anni e che in taluni luoghi produce mostruose
creature mitologiche (sapete, quelle che per metà sono una cosa e per l’altra
metà un’altra). Si contorceranno all’interno di aggregazioni che vivono una
crisi che appare irreversibile. Più che partiti sembrano reperti del passato
incapaci di offrire alternative. Rottamarli, come propongono al loro interno,
sarebbe saggio, anche se è molto probabile che continueranno a fingere di
esistere.
Rinunciare all’intento di tacere non
è purtroppo il segno che qualcosa sia cambiato. Ma c’è una ragione. Un elemento
di novità, enorme, che penso sia in grado di sovrastare i profili ideologici che
quelli della mia generazione hanno conosciuto. Il nostro Paese (inteso come
comunità nazionale) vive un momento cruciale. C’è un nemico, in parte alle porte
e in parte già infiltrato nelle strutture essenziali dello Stato. A questo punto
è insensato subordinare ogni impegno attardandosi in valutazioni al fine di
comprendere se ne vale più o meno la pena. Una tacita chiamata alle armi non si
discute; pur controvoglia bisogna rispondere presente. Si tratta quindi di
resistere per vivere o di cadere in piedi, non serve farla troppo lunga. Stiamo
assistendo ad un autentico ribaltone dei valori tradizionali e cristiani che
pongono l’uomo come fine e il denaro come mezzo. Il dogma del credo liberale
dominante pone come finalità primaria il capitale e come strumento la persona
umana. Questa barbarie è imposta da una limitatissima èlite finanziaria
internazionale che domina il mondo e decide sulle sorti di miliardi di cittadini
che progressivamente si vuole trasformare in sudditi. C’è una precisa strategia
che interessa l’Europa. Il potere finanziario, cioè esattamente quanti negli
ultimi anni hanno messo in dissesto le economie europee, invece di essere puniti
o addirittura espropriati, stanno occupando tutti gli spazi del potere. Da
Bruxelles e Francoforte pretendono di trattare i popoli come schiavi. E avranno
gioco facile fino a quando i luoghi della politica saranno popolati dalle tante
anime morte che non conoscono il significato dell’espressione: “sovranità
nazionale”. Ciò è stato avvertito anche dalla nostra gente e ha prodotto un moto
di profonda sfiducia verso una classe politica che non rappresenta gli interessi
primari del popolo italiano, cioè il fallimento della democrazia parlamentare e
con essa dei maggiori partiti politici che la esprimono.
Destra e sinistra si sono ridotte ad
essere semplicemente delle “ispirazioni culturali”. Per quanto riguarda le nuove
categorie della politica: chi è di destra è bene che non lo sia poi così tanto,
mentre a sinistra ci si impegna per far convivere il rude metalmeccanico col
raffinato banchiere. Anche questa nuova antitesi, imbrogliona, spinge i
cittadini che malgrado tutto hanno ancora voglia di impegnarsi, verso un
qualcosa di ALTRO che presuppone una commistione rispetto alle antiche
distinzioni. Non è una novità assoluta, del resto. E’ già avvenuto anche nel
recente passato e qualche traccia è possibile riscontrarla nel presente. Esse
hanno coabitato nel fascismo, nella DC, successivamente nella Lega Nord e per
ultimo nel Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo. Quindi non è assolutamente vero
che per cooperare allo sviluppo di un territorio è indispensabile una
omogeneità, se non ideologica, almeno di “visione” tra coloro che sposano il
progetto politico. Specialmente quando alle “visioni” non viene conferita alcuna
legittimazione politica. Può essere, invece, che dai differenti modi di
intendere la vita e dalle diverse esperienze, sia possibile trarre, con più
lucidità, quanto è utile per conseguire la conquista di un futuro che rischia di
non esserci. E’ indispensabile che le forze migliori espresse dal territorio
rinuncino a scontrarsi (magari sotto le insegne di schieramenti politici
nazionali falsamente opponenti e che comunque hanno già scritto dalla BCE il
compitino da svolgere). Quanti mostrano di possedere sensibilità politiche
sconosciute ai più devono collaborare fra di loro per tentare di scalare le
balze dello sviluppo. Scontrarsi in sede locale per promuovere il successo di
chi (ai massimi livelli) simula aspre contese (roboanti quanto fasulle) per poi
ritrovarsi a cena insieme e concordare, magari utilizzando i cunicoli che
collegano i palazzi delle istituzioni romane, non mi pare il massimo della
perspicacia.
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